vaccini

Cosa succede quando su una questione vitale per la salute la fiducia nella scienza cede il posto alle paure irrazionali? Che rischi comporta il fatto che sempre più persone, irretite dall’ansia insita nel ruolo di genitore, si convincono che il rimedio indicato dalla comunità scientifica nazionale e internazionale sia il male suggerito da voci la cui autorevolezza è spesso inversamente proporzionale alla capacità di diffondere pregiudizi e dubbi infondati? In Italia si sta assistendo a un fenomeno preoccupante. Cresce il numero dei bambini sottratti non solo ai vaccini raccomandati ma anche a quelli obbligatori. Risultato: si riaffacciano casi di morte per malattie ormai considerate impotenti grazie alla diffusione dei vaccini, come morbillo o pertosse. Sul vaccino contro il morbillo grava la sciagurata associazione con l’autismo. Nonostante la stragrande maggioranza degli esperti abbia spiegato con chiarezza che la concomitanza tra l’insorgere dei primi sintomi dell’autismo e la somministrazione del trivalente (rosolia, parotite e morbillo) corrisponde a una mera coincidenza cronologica, sempre più genitori evitano di vaccinare i propri figli, paralizzati dalle voci allarmanti che girano confusamente sui diversi canali mediatici. Per certi versi, il fenomeno non è nuovo e dipende dalla tendenza degli esseri umani a divenire preda di suggestioni fuorvianti quando si trovano in condizione di vulnerabilità emotiva. Ciò che preoccupa è l’aspetto culturalmente “reazionario” della tendenza in atto. I vaccini rappresentano una delle più grandi conquiste della scienza medica: la loro efficacia ha abbondantemente superato la prova dei fatti. Eppure, nonostante il conclamato beneficio da essi apportato alla salute collettiva, si ritrovano sotto l’ombra del sospetto. Può darsi che si tratti del verificarsi di un insidioso paradosso: proprio perché consolidato, l’effetto benefico dei vaccini viene in un certo senso rimosso, lasciando spazio alla diffidenza. In più, le agenzie istituzionalmente deputate a fornire risposte attendibili perdono progressivamente autorevolezza agli occhi dei cittadini, un po’ per la concorrenza caotica nel “libero mercato delle interpretazioni”, un po’ per la difficoltà, e a volte incapacità, di essere all’altezza delle domande sempre più esigenti e incalzanti cui sono sottoposte. Il problema non è di facile soluzione. In una società libera non si può imporre una verità scientifica di stato. Tuttavia, fino a che punto la libertà di esprimere e diffondere le idee anche più strampalate è un pungolo alla continua ricerca della conoscenza e non rischia invece di diventare una pericolosa cortina fumogena per la nostra mente già abbastanza disorientata?

fallimento

Sono passati quasi vent’anni. Era il 1994. Dopo una travagliata transizione dal Pci al Pds, imposta più dagli eventi storici che da una riflessione profonda e consapevole,  la sinistra italiana risparmiata da tangentopoli sembrava pronta alla rottura del tabù durato cinquant’anni: l’insediamento al governo del paese. E fu la prima cocente delusione. Lo spazio lasciato vuoto dal collasso della Dc e del Psi venne riempito dall’homo novus del populismo televisivo. Passano appena due anni e l’occasione si ripete inaspettatamente. La sinistra ex Pci individua in Prodi e nell’Ulivo la chiave per un progetto di governo progressista e inclusivo. Ma dopo appena due anni Prodi cade. E ancora si discute se la colpa vada attribuita al radicalismo narcisista di Bertinotti o al complotto masochista di D’Alema. Il popolo di sinistra, che aveva trovato nell’Ulivo la sua casa più congeniale, assiste a una sequela di errori disastrosi, tutti imputabili alla propria classe dirigente. Nel 2001 il punto più basso. Gli ex Pci in crisi nera accettano che sia Rutelli a competere con Berlusconi per la presidenza del consiglio: una caporetto. Passano cinque anni e, non riuscendo a risolvere i dissidi interni ormai incancreniti, gli ormai non più giovani leoni diesse si appellano di nuovo a Prodi, più anziano di loro ma ancora lucido e combattivo. SI sa come è andata a finire. Nel frattempo è già pronto il Pd di Veltroni. L’uomo del Lingotto, dopo un’onorevole sconfitta, resiste pochi mesi alla guida del partito che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto avviarsi verso una lunga e felice epopea neokennediana. Veltroni promette di andare in Africa, ma poi finisce per accettare la creazione di una corrente veltroniana probabilmente sorta a sua insaputa. 2008-2011: altra iniezione salutare di berlusconismo, dalla quale si esce con la soluzione Monti. Il Pd stringe i denti e in nome della responsabilità sostiene un governo decisamente impopolare. Ma gli ex Pci, per quanto pasticcioni, hanno dalla loro un popolo instancabile e generoso. Primarie Pd dicembre 2012: vince Bersani, arginando lo scalpitante homo novus fiorentino. Ormai sembra fatta. I sondaggi parlano chiaro, pochi mesi e un ex Pci potrà finalmente guidare il governo italiano. E invece no. Campagna elettorale cloroformizzata e risveglio amaro: Grillo alla Camera arriva al 25%. Inizia lo psicodramma, con il perverso intreccio tra ricerca di una maggioranza per formare il governo ed elezione del presidente della repubblica. Bersani perde la bussola e il Pd implode. Il voto dei 101 contro Prodi segna la fine ingloriosa di una classe politica incapace di far prevalere le ambiziose ragioni dell’unità sulle meschine contrapposizioni personali e tra correnti. E ora? Tra poco ci saranno le nuove primarie. Il popolo di sinistra è stanco. Questa estate, con ingenua e commovente generosità ha accolto Renzi alle feste dell’Unità con calore, ritrovando – che invidia – entusiasmo e speranza. E gli ex Pci? Tardivamente, con poca convinzione e continuando a litigare, sembrano decisi a sostenere Gianni Cuperlo, uomo intellettualmente solido ma destinato suo malgrado a incarnare una battaglia di retroguardia. Così sembra doversi concludere la parabola di una generazione che moneta dopo moneta ha sperperato un tesoro. A Renzi non resta che allungare la mano: il partito è servito su un piatto d’argento.

Liberazione

Liberazione (alla memoria di mio nonno, partigiano)

 

Raccontami dei tuoi occhi

Che videro gli aeroplani passare

E dei paracadute bianchi

Che portavano da mangiare

 

Dimmi se davvero

Le nuvole di quella primavera

Sembravano bandiere al vento

Che tutti volevano salutare

 

Parlami delle ferite

Stese al sole ad asciugare

Del sorriso dei bambini

E delle donne ad aspettare

 

Ricorda dei ponti caduti

E dei campi da sminare

Delle fabbriche difese come madri

E dell’ansia di gioire

 

Io ascolterò ancora

Anche il sapore atroce

Della vendetta da consumare

E non dormirò

Quando mi dirai

Delle notti insonni a ripensare

 

Sentirò anch’io sulla pelle

Il freddo della montagna

La paura del fucile da imbracciare

Il vento che taglia la faccia

E il fiore esile

Da sfiorare

 

Non smettere di raccontare

Lo so che sei stanco

E vuoi andare a dormire

Ma senza la tua voce

Ho paura di dimenticare

 

Non smettere di parlare

Anche se il tempo che ti rimane

Vorresti lasciarlo al silenzio

Per poter finalmente riposare

 

Raccontami del mercato nero

Del pane caro da maledire

Delle macerie alla luce d’aprile

Ossa spezzate da ricostruire

 

Dimmi dei soldati grigi

In fuga dalla vergogna

E dei giovani americani

Con i loro vent’anni in corsa

Certezze da spargere a piene mani

 

Parlami delle staffette

Sulle biciclette agili e incerte

Donne non ancora fatte

Tra coraggio e paura di morire

 

E infine dimmi del venticinque

Tra bandiere e canti

Sorrisi e lacrime

Timore ed emozione

Nodo alla gola sciolto

Nella parola liberazione

 

 

che fare?

Il Pd è crollato rovinosamente nel momento più difficile della sua esistenza. E’ nelle condizioni più ardue che si misura la solidità di un partito e la capacità del suo gruppo dirigente di rimanere unito, premessa indispensabile per fare scelte sensate e non naufragare. Un tempo si pretendeva che i partiti si reggessero su una visione del mondo organica. Da un bel po’ non è più così. Rimpianto e realismo non si sposano bene, tuttavia l’unità di una forza politica dovrebbe ancora avere qualcosa a che fare con quel misto di ideali e interessi comuni che trascende le differenze interne e le contiene. Se va bene, l’unità si rivolge a una meta da raggiungere; altrimenti, ad un nemico da sconfiggere – collante negativo spesso formidabile ma dagli effetti subdoli. Nella vicenda ingloriosa conclusa ieri dalla rielezione di Napolitano, al Pd è mancato qualunque barlume che indicasse la via dell’unità, perfino quello rappresentato dall’istinto di sopravvivenza. C’è da chiedersi se quanto avvenuto in questi giorni di passione non sia l’effetto deflagrante di cause profonde, remote e mai risolte. Se è vero che la gestione tattica della complessa partita in cui erano in gioco al contempo l’elezione del presidente della repubblica e la formazione del governo è stata disastrosa, i motivi che hanno condotto al disastro sono molteplici e concomitanti. Senza dubbio Bersani ha gravi responsabilità: è apparso come un capitano che non si accorge dell’ammutinamento in corso sulla sua nave. Ma a questo vanno sommate le vecchie faide giunte alla resa dei conti, le irriducibili contrapposizioni tra le diverse correnti del partito, l’inesperienza delle nuove leve, strette tra la difficoltà di decifrare le dinamiche complesse della trincea parlamentare e l’ansia di tradire le aspettative della base trasformate in onda emotiva travolgente dai social network.

L’insieme di questi punti deboli rinvia ad un limite annoso: l’incapacità di trasformare il Pd in un partito sicuro della propria identità e dei propri fini. Un partito in grado di riconoscersi in una vera sintesi politica e culturale, con una classe dirigente che sentisse tale sintesi come una seconda pelle. Nonostante tutti i tentativi condotti da non pochi esponenti del partito con dedizione e costanza, il Pd è rimasto un ibrido irrisolto. Né carne né pesce, anzi recidivo nel voler essere sia carne che pesce. Superfluo richiamare i mille esempi in cui l’assenza di un orizzonte condiviso ha impantanato il partito nell’incertezza o nell’ambiguità. Contraddizioni mai risolte in un partito sospeso tra la mancanza di generosità e apertura mentale necessarie ad andare oltre la convivenza forzata di visioni incompatibili e la paura di tornare indietro, risucchiato dal richiamo del novecento. Così il Pd è andato avanti senza riuscire a dare risposte piene alle richieste provenienti dal proprio elettorato, ma anche senza saperne indirizzare gli umori, gli entusiasmi, le rabbie. Perché una vera classe dirigente questo dovrebbe riuscire a fare: risultare convincente sia quando parla alla pancia che quando si rivolge alla ragione. Un partito è forte se i propri esponenti si mostrano credibili, allorché fanno leva sul senso di appartenenza così come nei frangenti in cui serve spiegare con chiarezza che il compromesso non è complicità o connivenza, ma mezzo a volte indispensabile per raggiungere fini ben definiti e coerenti. 

Tutto questo è mancato e sarebbe moralistico e superficiale attribuire la colpa solo alla mala fede o alla sordità di tizio e caio. Non riuscendo a trovare una soluzione ai difetti costitutivi, gran parte del ceto politico dei democratici ha tentato di supplire con il ricorso a espedienti, formule contorte, chiusura in circuiti asfittici, equilibrismi poco comprensibili soprattutto in un’epoca in cui la politica deve trasmettere messaggi semplici e adottare posizioni lineari. Per far ciò evitando la demagogia, è indispensabile ritrovarsi fino in fondo su strategie e obiettivi condivisi: condizione difficile da ottenere senza una cultura politica comune. Dalla sua nascita il Pd ha già affrontato diversi passaggi alla ricerca di sé, senza riuscire nell’impresa. A questo punto forse è troppo tardi. Nel prossimo congresso dovrebbe scendere dall’alto, come lo spirito santo, la consapevolezza di un aut aut: o si consente che il partito sia messo nelle mani di coloro – se ci sono – che per età ma soprattutto forma mentis sono in grado di far nascere un partito progressista europeo del ventunesimo secolo, oppure meglio la scissione. Se si considera lo scenario della politica italiana nel suo complesso, la prima soluzione può funzionare solo se viene sgombrato il campo da qualunque ambiguità ideologica e di collocazione politico culturale: solo un partito ancorato a idee e orizzonti strategici chiari e univoci può permettersi di essere aperto e pragmatico. Altrimenti non resta che dividersi. Già si profila la formazione di un nuovo partito del lavoro, di cui peraltro di discute da tempo. Probabilmente questo esito favorirebbe l’ulteriore allontanamento dal bipolarismo e scenari di alleanze non prevedibili. Se il futuro è nel grembo di giove, gli uomini possono almeno fare da ostetrici. 

collasso?

“E’ stato peggio di un crimine, è stato un errore”. E’ fin troppo facile infierire con cinismo sulla disastrosa strategia che ha condotto Bersani all’infausta scelta di Marini. A freddo gli storici saranno chiamati a spiegare le ragioni profonde di un comportamento apparentemente privo di spiegazioni, o oggetto di spiegazioni per certi aspetti superficiali: l’attaccamento alla poltrona. Bersani non solo da stamattina non può sperare in alcuna poltrona, ma su di lui cadrà la peggiore delle maledizioni: forse ancora più di D’Alema, sarà ricordato dal cosiddetto popolo della sinistra come colui che spinse il partito verso il baratro dell’autodistruzione nel tentativo di cercare un accordo a perdere con Berlusconi. Bersani è andato in crisi da schizofrenia politica, culturale, si potrebbe addirittura osare il termine esistenziale. Come molti ex-comunisti ha preteso di coniugare lo slancio sincero verso scenari progressisti con il fardello del presunto senso di responsabilità verso i sacri equilibri istituzionali. Una disposizione solo in astratto di buon senso, ma che risulta incomprensibilmente suicida se misurata col metro realistico delle circostanze storiche e contingenti. La schizofrenia ha assunto le sembianze di contraddizioni palesi. Bersani ha contribuito molto al rinnovamento dei gruppi parlamentari Pd. Come poteva pensare che i nuovi arrivati, spesso mossi da grandi aspettative di cambiamento e allergici a liturgie e modalità stantie potessero avallare l’operazione Marini? Come poteva illudersi che quegli stessi deputati e senatori che avevano votato con euforia per Boldrini e Grasso potessero digerire l’accordo con Berlusconi mentre i grillini, per non dire dei compagni di Sel, esprimevano con entusiasmo il proprio voto gratificante per Rodotà? Bersani è politicamente finito. E il partito? Spetta ai gruppi parlamentari dimostrare che ne esiste ancora uno. Occorre volare alto e avere coraggio, un coraggio ai limiti dell’ingenuità. L’assemblea dei grandi elettori Pd ha solo due possibilità per tentare di rimediare all’errore madornale che si è consumato nella votazione di stamani. La più lineare è accogliere la candidatura di Rodotà: a volte l’umiltà è una forma di intelligenza superiore alla coerenza. Altrimenti punti su Prodi, ma con decisione, rigettando la palla nel campo dei cinque stelle (magari accertandosi prima che qualcuno la raccolga). 

colle

In queste ore nel Pd si sta consumando l’ennesimo psicodramma. A quanto pare, Bersani avrebbe raggiunto un accordo con Pdl e Scelta Civica per eleggere Franco Marini al quirinale e adesso è in corso la riunione dei gruppi parlamentari del partito per discutere della proposta. La cautela nel commentare è d’obbligo: la storia delle elezioni alla presidenza della repubblica insegna che mai come in queste occasioni la politica assume in forma esasperata i connotati di una partita a scacchi. Tuttavia è in atto una vera e propria sollevazione dei militanti del Pd, che stanno esprimendo via web tutta la propria contrarietà all’ipotesi Marini. Scelta contrastata anche da molti esponenti di spicco del partito e in effetti difficilmente difendibile. Per varie ragioni. Bersani ha con insistenza sostenuto la tesi del doppio binario: ampia convergenza per l’elezione al Colle ma niente grande coalizione col Pdl per formare il governo. L’indicazione di Marini non soddisfa l’esigenza di una scelta largamente condivisa: è fortemente osteggiata dal M5S (che rappresenta un terzo dell’elettorato), da Sel (alleato organico del Pd), da una parte a quanto pare consistente dello stesso Pd. Con queste premesse, la formula del governo di cambiamento si allontana invece di avvicinarsi: anche qualora Bersani riuscisse ad ottenere la fiducia con il sostegno determinante del Pdl e della Lega, magari ricorrendo ad espedienti come l’uscita dall’aula al momento del voto al Senato, dovrebbe fare i conti con l’ostilità del M5S, il risentimento di Sel e la profonda divisione tra i suoi stessi parlamentari. Con non poche ragioni, nel Pd si ritiene che la mossa Rodotà da parte di Grillo sia degna di una “vecchia volpe della politica”. Dopo aver chiuso la porta al dialogo per l’individuazione di una candidatura concordata, indicando Rodotà Grillo in extremis mette al riparo il M5S dalle accuse di non voler scendere a patti in alcun modo e acquieta gli animi dei potenziali dissidenti interni disponibili al confronto col Pd. Ora può dire a Bersani: noi abbiamo proposto un candidato che incarna il meglio della tua storia, prova un po’ a giustificare il rifiuto di votarlo. E in effetti il nome di Rodotà anima il tam tam alimentato dalla base della sinistra. A questo punto Bersani e i parlamentari devono decidere. Se passa il nome di Marini, probabilmente domani si potrebbe avere la fumata bianca alla prima votazione, ma per il partito il prezzo sarebbe altissimo: spaccatura al vertice, rivolta indignata di buona parte degli elettori, conseguente indebolimento anche delle prospettive di governo. Se si decide di convergere su Rodotà, probabilmente inviso solo a una piccola minoranza dei gruppi parlamentari Pd e sostenuto senz’altro da Sel e dal M5S, ci si piega alla volontà di Grillo ma si riprende per i capelli la sintonia col proprio popolo e forse si apre uno spiraglio per il cosiddetto governo di cambiamento. Senza tuttavia illudersi che possa durare a lungo e fare miracoli, considerate le condizioni date. Ma questa è un’altra storia.    

esasperazione

Ieri sera, è finito da poco il tg quando ricevo un lungo sms: “Bersani scandaloso! Aspetta che venga eletto un presidente che gli dia l’ok a governare. Poteva fare subito un governo che approvasse i punti più importanti e poi cadesse, oppure elezioni subito. Ma è attaccato alla poltrona! Se lo faceva Berlusconi si scendeva in piazza! Non ha vinto punto! La gente intanto si suicida, è una vergogna!”. A inviare il messaggio è una cara amica, una compagna si sarebbe detto un tempo. Nel leggerlo ho avuto la reazione di chi viene colpito di sorpresa da un pugno allo stomaco. Le parole mi hanno turbato, così piene di rabbia, indignazione, starei per dire violenza se non fosse che a scriverle è una persona lontana da sentimenti livorosi e intransigenze aggressive, ironica e saggiamente gioviale. Il primo impulso è stato quello di rispondere immediatamente, protestando il mio disaccordo: cara, quanto scrivi è un misto di inesattezze e giudizi spropositati. Poi però mi sono fermato a riflettere. E ho colto il disagio, il senso di dolorosa impotenza, l’amara delusione celati dietro i toni crudi contro il capro espiatorio Bersani. Ho pensato che tra i tanti drammi insiti nella crisi tremenda in cui viviamo c’è il pericolo non solo di non riuscire più a guardare le cose con il giusto distacco, ma soprattutto di rimanere contagiati dal clima di esasperazione ormai capace di avvelenare le nostre parole, i nostri pensieri, le nostre anime. Allora mi sono accorto che il problema non era ribattere con argomentazioni razionali e riferimenti fattuali alle eventuali inesattezze contenute nello sfogo colmo di acrimonia della mia amica; e ancora meno difendere Bersani o riconoscergli delle attenuanti. No, il problema era, è, fermarsi a riflettere sul fatto che ci stiamo avvitando in una spirale di frustrazione dove gli occhi e la mente non sanno più vedere la tremenda complessità delle cose e i sentimenti si deteriorano, smaniosi di risposte semplici quasi sempre coincidenti con la ricerca di qualcuno cui attribuire tutte le colpe.

barca

Fabrizio Barca ha rotto gli indugi. In un’intervista al Fatto ha lasciato intendere chiaramente di volersi impegnare nella politica di partito. Quale? Il Pd. Ha chiarito che dopo l’esperienza come ministro del governo Monti vorrebbe dedicarsi a rilanciare l’unico soggetto politico che, adeguatamente riorganizzato, può offrire una base convincente alla sinistra italiana. E’ di sinistra, infatti, il Pd che Barca ha in mente. Una sinistra solida e moderna, che non ripudi le sue radici più antiche e sappia al contempo intendere la politica come consapevolezza della complessità ed elaborazione di proposte costruttive. Barca proietta in tale prospettiva il suo pedigree familiare e la sua esperienza professionale e di ricerca, la memoria del padre Luciano, partigiano e dirigente del Pci recentemente scomparso, e l’apertura cosmopolita intrisa di sano empirismo anglosassone. Barca entra in gioco nel momento in cui la partita nel Pd comincia a farsi incandescente, in una scacchiera intricata che implica l’elezione del nuovo presidente della repubblica, il possibile incarico per la formazione del governo, l’ipotesi di elezioni vicine. E, ad attraversare tutti questi risvolti, il futuro assetto della sinistra italiana. La scena su cui si affaccia Barca ha già un protagonista investito dai riflettori più luminosi: Matteo Renzi. Intelligentemente, Barca non si contrappone al sindaco di Firenze, mantiene un profilo basso e non a caso rimarca di guardare al partito e non alla leadership del centrosinistra per le prossime elezioni. Non cerca lo scontro frontale con chi sembra avere il vento in poppa. Sa che, inesorabile legge della politica, il predestinato Renzi sta attirando nella sua orbita anche molti quadri del Pd fino a ieri allergici al renzismo e magari intransigenti sostenitori di Bersani. Ma sa anche che il quadro è fluido. C’è un ampio elettorato refrattario alla seduzione di Renzi. Un elettorato per nulla settario o nostalgico che aspira a vedere realizzata una sinistra europea, larga, inclusiva, seria, lontana dalla demagogia così come dall’arido pragmatismo. Barca potrebbe rianimare l’ossimoro virtuoso delle competenza popolare, dell’élite democratica in “connessione sentimentale” con il proprio popolo, della modernità solidale capace di rimediare ai danni della modernità anomica, della dinamicità che non abbandona chi non è in condizioni di correre. A fronte del luccicare non si sa quanto consistente di Renzi, potrebbe attecchire un discorso meno effervescente e però più solido, rigoroso ma tutt’altro che grigio. La partita è aperta.

classi senza lotta

Rosario Dionisi e Annamaria Sopranzi si sono tolti la vita impiccandosi in un angusto stanzino vicino al garage di casa, a Civitanova Marche, provincia di Macerata. A sessantadue anni, Rosario era un muratore esodato e non riusciva a trovare lavoro, nonostante lo cercasse senza sosta. La moglie Annamaria aveva sessantotto anni e con la sua pensione di cinquecento euro non sapeva più come far fronte alle spese necessarie per vivere. Così hanno deciso di morire. Nelle corde hanno stretto la loro vita e la vergogna che gli aveva impedito di chiedere aiuto: non avevano voluto neanche rivolgersi ai servizi sociali. Nei tg hanno mostrato le foto: i volti di due persone semplici, senza pretese, da modesto condominio di periferia. La tragedia dei due coniugi marchigiani mi ha fatto pensare a un’altra notizia, diffusa ieri. Ha fatto scalpore l’inchiesta giornalistica che ha svelato i nominativi di migliaia di grandi evasori globali i cui capitali sottratti al fisco sono stati accolti nelle isole Cayman. Tra di essi ci sarebbero anche duecento italiani. L’entità complessiva del denaro riparato nei paradisi fiscali dicono ammonti a 1800 miliardi di dollari. Ma che senso ha accostare queste due vicende così lontane? Quale perversione moralistica può indurre a collegare il suicidio di una modesta coppia dell’impoverita provincia italiana all’abnorme massa di ricchezza sottratta al fisco e trasferita nei porti accoglienti di remote isole esotiche? Ad una persona normale non verrebbero mai in mente idee così balzane.           

Boldrini

La scelta di Laura Boldrini per la presidenza della camera è stata un’intuizione felice. In un certo senso, ha suggerito l’idea che il trauma dell’esito elettorale potesse convertirsi nella capacità di intendere con improvvisa lucidità la via da seguire per accogliere la richiesta irruente di cambiamento: declinando il nuovo in senso alto e non tramite espedienti poco credibili. La neo presidente ha dato ottima prova di sè fin dal discorso di insediamento, notevole nel tenere insieme il richiamo non dissimulato ai propri ideali e il sincero rispetto del ruolo istituzionale, il coraggio della passione e l’esplicita volontà di impegnarsi per difendere la neonata legislatura con le armi del dialogo e del lavoro concreto. Come la rondine, un bel discorso non fa primavera. Ma la Boldrini non si è fermata lì. In condizioni tutt’altro che favorevoli, ha cercato di far seguire i fatti alle parole. Tagli ai propri emolumenti e alle spese dell’ufficio di presidenza, proposta organica di riduzione delle spese complessive della camera da concordare anche con i sindacati dei dipendenti. E, sul piano più propriamente politico, sostegno discreto ma tenace al tentativo di avviare la composizione delle commissioni parlamentari. Un lavoro quotidiano poco visibile ma intenso, condotto tessendo la tela del confronto serrato con tutte le forze politiche, compreso il M5S, incalzato non con rimproveri moralistici ma con sollecitazioni serie e persuasive, sebbene aliene da facili lusinghe. Tutto questo mentre l’iter per la nascita di un nuovo governo seguiva una sconfortante parabola discendente fino al surreale stallo attuale, con Napolitano che prende tempo col ricorso ai saggi, Bersani che ribadisce la linea del governo di cambiamento senza sapere come uscire dal vicolo cieco della mancanza di numeri sufficienti alla fiducia, Berlusconi che teme l’elezione al Quirinale di Prodi e oscilla tra l’improbabile governissimo e le impossibili elezioni subito, Grillo che implacabile dice no a qualunque apertura nei confronti del Pd, nonostante qualche crepa di dissenso nel suo movimento. E infine Matteo Renzi, che rompe gli indugi, attacca la strategia impotente del segretario e rilancia la propria candidatura per elezioni che sente – e desidera – vicine. Sarà questo lo sbocco conclusivo? E’ probabile, ma forse non inevitabile. Bersani ha dichiarato, un po’ masticando le parole, che sarebbe anche disposto a fare il famoso passo indietro, se servisse a sbloccare la situazione. Bene, può valere la pena tentare. A questo punto sono richieste due mosse, una più ardua dell’altra. La prima è una difficile quadratura del cerchio per il Quirinale: un candidato che non può essere uno schiaffo per il Pdl ma che deve risultare gradito al M5S. In parallelo, la riapertura della partita per il governo che andrebbe chiusa cronologicamente dopo l’elezione del presidente della repubblica. E in questo caso, perché non Laura Boldrini?